ANTONIETTE PESCHE’ e PIERRE MARTY, ‘QUI IL SENTIERO SI PERDE’ (ADELPHI, pp. 446 – 24,00 euro – Traduzione di Daniele Petruccioli)
Un romanzo uscito nel 1985, ultimo recupero della nuova Adelphi, in cui il lettore, come il titolo riguardasse personalmente anche lui, si perde affascinato da un mondo, quello dell’Asia centrale da Mille e una notte di inizio Ottocento, e dall’avventura materiale e spirituale, ma sempre legata alla fatica della sopravvivenza e di un percorso difficile, di un uomo che si degrada al fondo della propria bestialità per poter risalire e ritrovarsi. Quest’uomo, che si presenta alla fine del suo viaggio come Fedor Kuz’mic, personaggio di un racconto di Tolstoj in cui si indaga la scomparsa di Alessandro I, Zar liberale e vincitore di Napoleone, che si dice morto il primo dicembre 1825, ma che una voce, una leggenda racconta invece sia volontariamente scomparso, rinunciando a tutto e oppresso dal peso del potere, dopo la morte dell’amata figlia Sophie, tanto che al suo funerale si fece di tutto per non mostrare il suo corpo ai sudditi e tanto meno a volto scoperto, secondo il rito ortodosso. Questo affascinante romanzo, grazie anche alla non facile, bella e intensa traduzione di Daniele Petruccioli, racconta i dieci anni dopo quel giorno di un uomo che, liberandosi dei propri sensi di colpa, è profondamente cambiato tanto da essere venerato come un santo, gira Turkmenistan, Uzbekistan e Mongolia, arriva nella Siberia dove a suo tempo Alessandro aveva confinato e imprigionato i decabristi dopo la loro rivolta idealista e elitaria. Oramai li sente affini nella loro sete di giustizia e eguaglianza e lì qualcuno forse lo riconosce, ma invano provano a interrogarlo, risponde silenzioso solo sorridendo: “Dove andava? Doveva percorrere ancora molta strada? Desiderava che lo accompagnassimo? – Qui il sentiero si perde”, è la chiusura del libro, del racconto, del viaggio. Praticamente la storia è divisa in due parti. Quella di un fuggiasco coperto di stracci che viene catturato e venduto come schiavo a Samarcanda, la sua vita sventure e avventure. Un romanzo avvincente nel romanzo in cui alla fatica e alla brutalità si affiancano storie d’amore, come quella bellissima con Sarasya, e d’amicizia, con Ivan, tra un progetto di fuga e l’altro. Alla fine la fuga ci sarà, tra cavalli e zingari, grazie al fascino e la travolgente sensualità della bella Malusia. Lei però lo lascerà e lui riprenderà a peregrinare, incontrando una famiglia protestante che lo accoglie come un figlio e gli promette la figlia Masha. Anche da lei fuggirà capitando tra cercatori d’oro e galeotti evasi, sinché in Mongolia non incontra un monaco buddista zen e la sua vita cambia. Inizia allora la seconda parte, alta e intrigante nella sua indagine sapienziale, che è un girare fisico, ma soprattutto un lungo viaggio spirituale e di conoscenza, in cui solo arrivando al massimo degrado e orrore di sé l’uomo riuscirà a ritrovarsi e, avendo acquisito una sorta di stadio superiore, otterrà ‘Il volto di chi ha veduto il Regno’, come dice che lo incontra. Quest’uomo ogni tanto ha delle riflessioni, gli lampeggia un ricordo, come quello della rivolta decabrista, repressa violentemente: “La ragion di stato aveva prevalso, ma entrambe le ragioni antagoniste erano incapaci di cogliere il male di cui soffriva il popolo e porvi davvero rimedio”. Altrimenti annota che solo ritrovando la parola di Cristo il mondo potrà salvarsi “dal razionalismo che lo fa imputridire”. La verità è che “solo riuscendo a spogliarsi dell’io si potrà liberarsi dal dolore”.
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