di Francesco Terracina
ALBERTO STABILE, “IL GIARDINO E LA
CENERE. ISRAELE E PALESTINA NEL RACCONTO DI UN ALBERGO
LEGGENDARIO”, (SELLERIO PP. 233, 15 EURO)
L’albergo leggendario di Gerusalemme, l’American Colony, rifugio
della tribù di giornalisti (ne ospitava fino a 300) arrivati dai
quattro angoli del pianeta, è il luogo che Alberto Stabile,
inviato di Repubblica sin dai tempi della prima intifada,
sceglie come punto d’osservazione per raccontare una storia di
sangue e distruzione a partire dall’88 e fino all’ultimo
conflitto scatenato dalla strage compiuta da Hamas lo scorso 7
ottobre.
Per Gerusalemme il Colony è un po’ come lo Schatzalp di
Davos, che fa da sfondo alla “Montagna incantata” di Thomas
Mann. Situato in una rientranza della Nablus Road, nel quartiere
Sheikh Jarrah, al Colony s’aggirava il boliviano Juan Carlos
Gumicio, morto a soli 52 anni, uno dei giornalisti (assieme a
Robert Fisk e Odd Karsten) a scoprire nel settembre dell’82 il
massacro di Sabra e Shatila che era stato fino a quel momento
occultato. Lo fecero, come avrebbe raccontato Fisk, perché
incuriositi da uno sciame di mosche, “eccitate dall’odore della
morte”. L’albergo è anche il luogo in cui Gumicio e Marie
Colvin, la giornalista che sfidava i cecchini per portare a casa
un briciolo di verità, coltivavano un rapporto poi sfociato nel
matrimonio: “Ad esser felici insieme ci hanno provato. Ma non ha
funzionato”, scrive Stabile, anch’egli invaghito di una
fotoreporter americana, Anastasia: “Molti amori sono sbocciati
all’interno di scenari di guerra, dominati dalla tensione,
dalla paura e dal desiderio di portare a casa la pelle”,
confessa l’autore.
Il Colony era anche il luogo del libraio Munther, che in un
angolo dell’hotel offriva testi imprescindibili sul Medio
Oriente. E davanti al Colony stazionava il divo dei tassisti,
Abu Shain, “fumatore incallito, capace di rivoltare come un
calzino il motore della sua Mercedes”. Un uomo che sfoggiava un
inglese quasi incomprensibile, che non era l’unico difetto:
praticava, suo malgrado, prezzi esosi ma arrivava a destinazione
superando ogni ostacolo. Governato a bacchetta dalla moglie, a
sera doveva mettere insieme almeno cento dollari, senza i quali
sarebbe stato meglio che non rincasasse.
“A poco a poco, i Jerusalem Boys and Girls si sono dispersi
fra le varie capitali del mondo da cui erano partiti”, scrive
Stabile. Altri sono morti, come Gumicio e Marie Colvin, uccisa a
56 anni in un agguato dell’esercito siriano a Baba Amr, insieme
al fotoreporter francese Rémi Ochlik. Come Patrice Claude, “il
Richard Gere” dei grandi reporter francesi, sconfitto da una
malattia.
Una dozzina d’anni fa, tornato a Gerusalemme “dovetti
constatare che una nuova generazione di giornalisti s’era fatta
avanti per seguire il conflitto mediorientale. L’albergo dove
anni prima mi ero sentito a casa mi accolse con l’affettuosa
ospitalità di sempre. Ma alcuni degli alti sgabelli rimanevano
adesso vuoti, o erano occupati da altri. In un angolo del
cortile, adibito a parcheggio, dove un tempo Lawrence d’Arabia
aveva giocato a pallone esibendosi come portiere, notai una
piccola targa che ricordava la morte di Valentine Vester, la
donna che, assieme al marito Horatio, aveva dato origine, forse
senza volerlo, al mito dell’American Colony”.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA